RECENSIONE GIUDITTA E IL MONSÙ
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GIUDITTA E IL MONSÙ * Costanza DiQuattro * Baldini & Castoldi * pagg. 224 |
Ibla, 1884. A Palazzo Chiaramonte, una notte di maggio porta con sé due nascite anziché una soltanto. Fortunato, abbandonato davanti al portone, e Giuditta, l'ultima fimmina di quattro sorelle. Figlia del marchese Romualdo, tutto silenzi, assenze e donne che non si contano più, e di sua moglie Ottavia, dall'aria patibolare e la flemma altera, è proprio lei a segnare l'inizio di questa storia. Lambendo cortili assolati e stanze in penombra, cucine vissute ed estati indolenti, ricette tramandate e passioni ostinate, il romanzo si spinge fin dove il secolo volge, quando i genitori invecchiano e le picciridde crescono. C'è chi va in sposa a un parente e chi a Gesù Cristo, ma c'è pure chi l'amore, di quello che soffia sui cuori giovani, lo troverà lì dov'è sempre stato: a casa. Dopo Donnafugata, Costanza DiQuattro invita a sfogliare un nuovo album di famiglia, fatto di segreti inconfessabili, redenzioni agrodolci, e tanta, infinita dolcezza.
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Un'altra femmina. La quarta.
Marchese Romualdo ormai vede già il titolo nobiliare passare nelle mani di suo fratello.
Quella stessa notte arriva un maschio, ma abbandonato davanti al portone della villa del marchese il quale non ci pensa un attimo ad affidarlo a don Nicola, il monsù di casa e sua moglie, donna Marianna.
Il suo nome sarà Fortunato ed è sempre Romualdo a sceglierlo.
La storia si sviluppa su una sola linea spazio temporale, che va da Ibla, quartiere più antico della città di Ragusa a Poggiogrosso dove la famiglia trascorre il periodo estivo, coprendo trent'anni, dalla fine del 1800 al 1915.
L'educazione delle figlie del marchese è affidata al canonico LoPresti il quale individua subito le inclinazioni delle ragazze:
- Amalia, predisposta per le scienze umanistiche;
- Rosalia, portata per la matematica, con un pizzico di pepe nel carattere che la porta a rispondere in maniera pungente a chi la contraddice;
- Aida: amante delle Sacre Scritture e per la quale il canonico prevede una vocazione alla vita religiosa;
- Giuditta: non ama studiare. Appena può si rintana in cucina impressionando per la sua capacità di non turbarsi neanche dinanzi ad un maiale scuoiato.
Queste indicazioni vengono riportate dal canonico a Oscenza (appellativo dato a persone dotte, sapienti o grandi proprietari terrieri, baroni), ma non dà peso a nessuna di esse. D'altronde il destino di ciascuna figlia è già deciso e niente per il marchese potrà cambiarlo. Lui, per lo più austero, sorprende con quelle piccole pause di serenità che danno luogo a battute inaspettate.
Così, presi dalla vita che scorre sotto un sole che spacca le pietre e lascia poco respiro e inverni mai rigidi, Giuditta vive una vita parallela, in un mondo solo suo: la cucina. Qui il monsù, "appellativo dato anticamente ai cuochi professionisti, condivide con lei ricette e ingredienti segreti. I suoi occhi sono quelli di un'innamorata, pronta a danzare con ogni ingrediente, a sfiorare quelli più delicati e a manovrare con passione quelli più grezzi.
Il mondo esterno non esiste.
Solo lei, l'arte della cucina e Fortunato, destinato a vivere tra i fornelli perché il monsù è don Nicola. La serenità di Giuditta incomincia ad essere scalfita quando si prospetta il matrimonio di Amalia, la sua sicurezza.
"Per l'ennesima volta, dentro quella stanza che le aveva viste crescere mano nella mano, Amalia aveva sollevato Giuditta dalle sue insicurezze, da quella feroce paura che ti assale quando d'un tratto scopri che nulla resta identico a se stesso ma tutto muta in un continuo divenire che smonta i paini e cancella le speranze."
Si riprenderà quando vedrà accendersi la speranza di coltivare il suo amore per la cucina grazie all'incarico di monsù che verrà dato a Fofò, perché il padre, ormai stanco, non ce la farà più.
Inizia così una condivisione tra colei che i libri non ama e colui che vuole leggere e studiare.
Quei muri che fino ad allora avevano visto due bambini che coltivavano una passione ed un'amicizia, ora vedono due adulti che hanno occhi che luccicano, mani che si intrecciano mentre impastano. La cucina diventa teatro di "condivisione di sogni e di speranze".
Costanza DiQuattro ci serve questa intimità in un cesto che l'accoglie e l'avvolge in una bambagia di delicatezza. Con la sua carezza l'autrice seduce e coinvolge.
Le sue descrizioni, dei personaggi e degli ambienti, sono sempre ricche di particolari, ma mai sovrabbondanti, pesanti. Sono leggere, fresche, profumate come un velo di borotalco sulla pelle. La costruzione dei personaggi è completa così da rendere evidenti i ruoli: protagonisti, coprotagonisti e figure secondarie.
L'uso della lingua, con l'espressioni siciliane, il dialetto tipico, non è mai motivo di incomprensione: viene calato all'interno della trama in modo da comprendere con facilità il significato e spingendo alla ricerca e all'approfondimento dei termini tipici. La sua scrittura sensoriale è in grado di far percepire gli odori dei piatti tipici dell'epoca e del luogo.
È una storia d'amore, priva di elementi leziosi. È un libro delicato, ma potente che porta a riflettere sul senso sul senso del sacrificio per amore di una verità che non è detto sia sempre giusto svelare.
"Ci sono verità, così dolorose nella vita, che sembrano non appartenere al mondo. Verità che farebbero bene a restare celate nel fondo di un cassetto mai aperto, nei meandri di un animo mai lindo. Verità che non possono essere udite perché il loro suono diventa una campana a morte, un verdetto finale, una condanna eterna".
Loredana
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